giovedì 14 aprile 2016

Il problema socio-economico e politico dei servizi sociosanitari

A cura di Renato Dapero


Il sistema di welfare definito nella seconda metà del ‘900 ha raggiunto la sua massima espressione negli anni a cavallo tra i due secoli affermando i principali diritti dei cittadini e definendo così i pilastri principali dell’assetto sociale. La qualità di vita ha raggiunto i livelli più elevati e quindi anche nel nostro mondo dei servizi sociosanitari si sono raggiunti ottimi livelli in alcuni casi di eccellenza e complessivamente standard elevati sia pur con differenze territoriali abbastanza marcate.
Ora però ci troviamo di fronte alla necessità di una riforma o di una reinterpretazione del welfare perché, per diverse ragioni, qualcosa non regge più. Si vuole mantenere e potenziare il livello attuale ma si vede in primis una difficoltà evidente nelle previsioni demografiche. Su questo punto non è necessario dilungarsi; è noto a tutti, infatti, che l’età media è in aumento e che pertanto, alla presenza di un tasso di disabilità e non autosufficienza a sua volta in crescita, la domanda di servizi aumenta e così la relativa spesa pubblica e privata aumenterà.

Altro elemento che s’insinua è la valutazione che può essere fatta discendere dagli effetti complessivi della globalizzazione. L’idea è che il welfare comporta un carico regolamentare e fiscale troppo alto in una situazione di confronto competitivo con le economie emergenti, cosicché se ne dovrebbe prevedere un rilevante ridimensionamento. Inutile scandalizzarsi, ma sembra molto grave ipotizzare di pagare la possibilità di mantenersi in corsa con un arretramento sociale. Anche questo è un tema, come quello del risparmio delle risorse e la riduzione degli sprechi.
   
Sembra invece giusto immaginare che al centro della nuova visione del welfare ci sia la persona singola, inserita in una rete di relazioni, con diritti, responsabilità e doveri. Si devono immaginare interazioni positive tra le politiche pubbliche e le iniziative che sorgono dalla società civile e anche la progettazione di nuove forme di collaborazioni e azioni sinergiche. Appare necessario alla fine giungere al problema della politica che, per quanto impopolare, è tuttavia il principio imprescindibile di ogni azione che ci riguarda. Occuparsi di politica ha senso purché si mantenga una doverosa distanza da ogni possibile tentazione di “schieramento”, per evitare il rischio di polemiche sterili e di scadere in una sorta di semplificazione del tutto riduttiva rispetto al problema.
Di fatto oggi siamo di fronte ad un’estrema povertà della cultura politica e quindi c’è confusione sul tema politico-filosofico del “bene comune”. La politica è sempre stata gestita dai partiti ma oggi c’è una domanda: sono questi interpreti e portatori delle espressioni di quell’associazionismo da cui provengono valori e idealità o sono diventati soggetti impermeabili alla domanda diffusa e attenti solo alla programmazione elettorale?
Forse i partiti hanno imboccato una strada sbagliata e degradante e se questo è vero, ne consegue che la Politica (con la P maiuscola) ne è gravemente danneggiata. Ma non dobbiamo condannare la politica che sarà sempre e comunque la scienza e l’arte di selezionare le decisioni in vista della conservazione e dell’incremento del “bene comune”.

C’è una seconda considerazione importante: non soltanto i partiti possono fare politica, ma la possono fare anche i cittadini più o meno organizzati e rappresentati. Del resto, nessun miglioramento ci potrà mai essere se manca l’impegno dei cittadini e il senso della comunità, cioè la consapevolezza di essere legati da reciprocità, da voglia di discutere gli stessi problemi e di ispirarsi agli stessi valori.
Ora sappiamo che stiamo attraversando un periodo di crisi, ma un certo modo di intendere lo Stato e il Pubblico in genere non fa che accentuarla andando oltre il fatto economico ma sconfinando nella crisi istituzionale e più in generale delle ragioni dello “stare insieme”. Tutti desiderano beni per sé e amano ciò che è utile più di ciò che è giusto, quindi lo Stato deve garantire la concordia e con le sue norme deve regolare l’uso dei beni evitando gli abusi e i danni. Se questo non fa _ o non fa correttamente _ occorrono riforme o uno sforzo di far funzionare le norme esistenti.
Prendiamo in considerazione la c.d. Spending review che ha colpito la spesa sanitaria colpevole di sprechi. Ma c’è stata una valutazione precisa? è stato fatto un piano di miglioramento con un’attenta definizione delle priorità? Viene da dire che si è confuso il mezzo con il fine dando enfasi al risparmio e non alla salute. Non si è visto un progetto politico, ma sostanzialmente tagli alla spesa. Dunque una riforma di facciata.
Un altro punto ricorrente nelle situazioni di crisi è il ritorno al centralismo, ossia riportare nelle mani di pochi centri decisionali le maggiori responsabilità, allo scopo di ridurre gli sprechi. Ma ciò in realtà è lontano dal declamato principio di sussidiarietà verticale e ancor di più della sussidiarietà orizzontale attuata attraverso il rapporto tra istituzioni, imprese, altre organizzazioni della società civile. Questi c.d. corpi intermedi cui si attribuisce importanza nella definizione del welfare saranno considerati o ignorati e ridotti nella loro potenzialità? Che cosa sarà possibile fare per creare un orientamento positivo?



PUBBLICO - PRIVATO

Il Privato viene vissuto come incline alla soddisfazione di interessi di pochi e quindi guardato con sospetto quand’anche sia impegnato nell’erogazione di servizi pubblici. Abbiamo vissuto nel tempo una lunga stagione, dove era preferito il mantenimento nel pubblico anche dell’attività di produzione perché solo il pubblico sarebbe stato affidabile nel perseguire l’interesse pubblico. Ciò perché tutte le risorse sarebbero state impiegate nel servizio a differenza del privato che ne tratteneva una parte come profitto. Non è mai stato facile capire quali fossero le giuste percentuali.  Qual era la percentuale riservata al profitto del privato e quale al “costo della politica”?
I corpi intermedi, la società civile, il privato sono visti con pregiudizio e trattati con diffidenza specie quando non accettano forme di assimilazione al comparto pubblico. La domanda è: dobbiamo cedere a questa impostazione? Forse le coop qualche volta sono cadute in questa tentazione. Ciò non è un bene e quindi va evitato. Si deve togliere la gestione alle amministrazioni pubbliche e ricondurre la politica al suo ruolo di regolazione e di coordinamento, di sostegno e verifica della qualità nei confronti delle attività appartenenti alla libera iniziativa che spesso hanno saputo dare risposte concrete e addirittura preceduto l’intervento pubblico.
I dati di fatto di oggi ci mostrano la necessità impellente di “fare qualcosa” e la prima considerazione a questo punto dell’analisi è che occorre “ripartire dal basso”, cercando la via possibile per una crescita o per un mantenimento del welfare che abbia carattere inclusivo e appaia come un prodotto di tutti.

Per questo ci vuole una Pubblica Amministrazione agile e dotata di alcune precise caratteristiche.
1. una “sensitività” strategica per sapere e cogliere le opportunità appena emergono, deve saper leggere il presente e immaginare il futuro con un approccio lungimirante;
2. una reale flessibilità nell’allocazione delle risorse a seconda dei bisogni attuali senza essere imbrigliata dai dati storici;
3. uno stile di Governance unitario in grado di produrre valore sociale e di cogliere al meglio le richieste dei cittadini nel rispetto dell’autonomia di ogni amministrazione.
Con quali strumenti?
1. Gestione del bilancio: dilemma tra ricentralizzazione delle decisioni e responsabilità dei centri di spesa. La soluzione è l’applicazione dei costi standard da un lato e l’accrescimento della responsabilità e della discrezionalità unito ad una severa analisi dei risultati dall’altro.  Nelle leggi attuali questo non c’è, mancano strumenti validi di budgeting e soprattutto di valutazione dei risultati delle politiche pubbliche.
2. Gestione delle risorse umane: lotta tra necessità di risparmio e necessità di qualità e innovazione. Occorre intelligenza nella gestione delle risorse umane: pianificazione della forza lavoro, gestione degli skills, assunzioni flessibili, incremento della mobilità, rafforzamento delle diversità, sistema premiante motivazionale, formazione e poi ancora formazione.

3. Uso intelligente e pervasivo delle ICT (Information Comunication Tecnology) in un’ottica di flusso continuo di dati e informazioni per rispondere ai bisogni dei cittadini abituati ormai a interagire con le realtà a cui si rapportano (banche, assicurazioni, alberghi, viaggi ecc). Occorre superare l’uso del digitale semplicemente per velocizzare ciò che si è sempre fatto con altri strumenti (A volte anche mancando l’obiettivo). L’Amministrazione deve invece ripensare per intero dalla progettazione del servizio alla sua fruizione.

Le nuove tecnologie, compresi i social media, possono veramente cambiare i paradigmi: aprire le amministrazioni e permettere la negoziazione continua con tutte le componenti della società in un’ottica di sussidiarietà.
Questo cambiamento, che è una vera rivoluzione, non può essere affidato ai soli giuristi… Non occorre un nuovo codice, ma dateci piuttosto manuali, cassette degli attrezzi ed esempi da imitare e noi finalmente potremo mettere in atto concreti cantieri d’innovazione.
Abbiamo due importanti alleati: I dati di fatto che gridano la necessità di cambiamento e la nostra sete di verità e di bellezza![1]



[1] È interessante puntare sulla bellezza perché lo scontro bello/brutto è più consono alla coscienza dell’uomo mentre il contrasto giusto/sbagliato è sempre fuori dal cuore dell’uomo perché ad affermare ciò che è giusto è sempre un altro soggetto. Il Giusto è una categoria importante e funzionale più al primato dello Stato che non dell’uomo e della società.


[i] Bibliografia.
Sono stati consultati scritti dei seguenti autori:
Claudio De Vincenti e altri (Manifesto per un nuovo welfare), Carlo Mochi Sismondi, Valter Viola, Luciano Violante, Vincenzo Tondi della Mura,


 

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