venerdì 27 giugno 2008

Dieci domande sui Piani di Zona

1 - Cos´è un Piano sociale di zona?
E´ un documento di programmazione dei Comuni associati che, in coerenza col Piano sociale regionale e di intesa con l´Azienda USL, definisce le politiche sociali e socio-sanitarie rivolte alla popolazione dell´ambito territoriale coincidente con il distretto sanitario.
2 - A cosa serve un Piano di zona?
Serve a costruire un sistema integrato di interventi e servizi. Integrazione a livello delle politiche sociali – sanitarie – educative e del lavoro; integrazione mettendo in relazione servizi e provvedimenti assistenziali di natura diversa; integrazione infine nella collaborazione e nel lavoro coordinato tra cittadini e soggetti istituzionali, tra enti pubblici e privati
3 - Cosa contiene un Piano di Zona? (art.29 L.R. 2/2003)
La definizione del sistema locale, quindi di quella zona, dei servizi sociali a rete, cioè connessi in modo da essere "percorribili" dagli utenti senza forti discontinuità o addirittura conflitti;
le modalità con cui va organizzato l’accesso ai servizi per garantire l’effettiva esistenza della rete e la presenza di una guida al cittadino da parte dei nodi della rete;
il coordinamento con le amministrazioni statali (Scuola, giustizia ecc..)
Gli obiettivi e le priorità d´intervento specifici della Zona, anche in ambito sociosanitario, nel quadro di quelli definiti a livello regionale indicati di seguito:- Valorizzazione e sostegno delle responsabilità familiari e delle capacità genitoriali- Rafforzare i diritti dei bambini e degli adolescenti- Potenziare gli interventi di contrasto della povertà e dell´esclusione sociale- Sostegno della domiciliarità- Prevenzione delle dipendenze- Azioni per l´integrazione sociale degli immigrati.Gli strumenti e le risorse per raggiungere gli obiettivi;I modi in cui i cittadini partecipano al controllo di qualità dei servizi;Quale formazione di base e/o permanente occorre agli operatori della zona.
4 - Come si è avviato sul territorio il processo?
Gli indirizzi generali per la costruzione e l´approvazione dei primi Piani sociali sperimentali di zona sono stati dati dalla Regione (Delibera consiliare n. 246/2001 e DGR 329/2002). La metodologia "dal basso verso l´alto" consente di far emergere e valorizzare le tendenze proprie delle diverse zone e realtà locali, rispetto sia alle scelte sul sistema dei servizi sia agli obiettivi strategici, riguardanti le forme di gestione dei servizi, l´integrazione delle politiche, la qualificazione del sistema, la formazione degli operatori.attuati i seguenti passaggi:-attivazione di organismi politici e tecnici distrettuali per elaborazione e la gestione dei PdZ.- individuazione e coinvolgimento dei soggetti, compreso terzo settore, che parteciperanno in forme diverse al PdZ, -attivazione della rete dei soggetti chiamati alla gestione integrata degli interventi e dei servizi.ciò con il governo dei Comuni e delle Province chiamate ad un´azione di stimolo, coordinamento e supporto.
5 - Quali sono le fasi di elaborazione dei Piani?
L´elaborazione dei Piani è partita dalla ricostruzione delle basi conoscitive sul sistema dell´offerta presente nelle varie aree di intervento. Ciò si è concretizzato con l’individuazione dei soggetti presenti sul territorio, a diverso titolo coinvolti nel sistema di offerta dei servizi con la prefigurazione del loro possibile ruolo nella progettazione complessiva dei servizi del territorio. È infine necessario predisporre occasioni e strumenti di rappresentanza dei diversi soggetti, per consentire a tutti di esprimere il proprio contributo
Alla ricostruzione dell´offerta segue l´individuazione di bisogni e criticità del sistema e quindi la definizione di obiettivi prioritari tradotti, dai Comuni associati, in scelte concrete, riferite a singole tipologie di servizio o di intervento.
6 - Quali sono quindi gli attori coinvolti nei Piani di Zona?
I soggetti istituzionali:- La Regione con funzione di indirizzo, programmazione e coordinamento;- Le Province, con funzione di promozione, accompagnamento e formazione a livello interzonale;- I Comuni associati con ruolo di promozione, governo e direzione del processo, di produzione e gestione dei Piani;- Le Aziende USL e i distretti nella programmazione congiunta con i Comuni, in quanto soggetti competenti sull’accesso e l’erogazione dell´assistenza primaria - sanitaria e sociosanitaria;- Le amministrazioni statali, che in base alle loro competenze hanno dato il loro apporto alla programmazione (scuola, carcere, giustizia minorile).
I soggetti sociali (Hanno aderito in molte zone ai Piani con specifici Protocolli di adesione)- La cooperazione sociale- Il volontariato- L´associazionismo- Le organizzazioni sindacali- Le IPAB, oggetto di un processo di trasformazione in ASP.
7- Come si realizza l´integrazione sociosanitaria nei Piani sociali di Zona?
Per gli interventi socio-sanitari e ad elevata integrazione socio-sanitaria ci deve essere coincidenza tra le indicazioni del PdZ e quelle del Programma delle attività territoriali del Distretto, e l´Accordo di Programma che approva i piani deve essere sottoscritto anche dal Direttore Generale dell´Ausl o dal direttore di Distretto. Inoltre i Piani devono tenere conto delle indicazioni e delle elaborazioni contenute nei Piani per la Salute nonchè dei Livelli Essenziali di Assistenza sanitaria (LEA). E´ in corso un processo di innovazione del governo dell´integrazione socio-sanitaria anche a seguito dell´introduzione sperimentale del Fondo regionale per la non autosufficienza.
8 - Come si attuano i Piani di Zona?
Il Piano è un documento programmatico di prospettiva triennale, e prevede per la sua attuazione due ulteriori strumenti:- il Programma attuativo annuale nel quale vengono individuati nel dettaglio gli interventi e i servizi e le relative risorse per il loro funzionamento;- l´Accordo di Programma tra Provincia, Comuni associati e Azienda USL, anch´esso di durata annuale, nel quale i diversi soggetti istituzionali sottoscrivono specifici impegni relativi a obiettivi e risorse.
9 - Quali sono le risorse per attuare i Piani di Zona?
Le risorse finanziarie per l´attuazione dei Piani provengono: - dal Fondo sociale nazionale (risorse indistinte e vincolate su specifici interventi/aree di bisogno)- dal Fondo sociale regionale (risorse indistinte e risorse finalizzate a specifici Programmi)- dagli Enti locali (singoli Comuni, Comuni associati, Consorzi, Comunità montane, Province)- dalle Aziende USL (specificamente sugli interventi ad integrazione sociosanitaria)- da altri Enti non istituzionali: IPAB, Fondazioni, soggetti del Terzo settore- dalle quote di compartecipazione al costo dei servizi a carico dei cittadini utenti.
10 - Quali sono i primi risultati dei Piani sociali di Zona?
Nel suo complesso il processo di programmazione sperimentale attuato ha portato nella maggior parte dei territori all´avvio:- di un processo integrato, tra i vari livelli istituzionali e i diversi soggetti sociali, di valutazione dell´offerta e dei bisogni e di programmazione;- di un processo di integrazione con altre politiche settoriali: in primo luogo sanitarie, ma anche della scuola, della formazione professionale e del lavoro, delle politiche abitative;- di un confronto sulla validità e l´efficacia delle differenti forme di gestione dei servizi sociali sperimentate in Emilia-Romagna.
È una sintesi di quanto pubblicato sul sito della regione Emilia-Romagna
http://www.emiliaromagnasociale.it/wcm/emiliaromagnasociale/home/documentazione/pdz/PdZ_FAQ/Tutte_le_faq.htm

sabato 7 giugno 2008

Professioni sociali



ANOSS presente a Roma al seminario del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali.

report della giornata

“IL LAVORO NEL SETTORE DEI SERVIZI SOCIALIE LE PROFESSIONI SOCIALI”

All’apertura dei lavori da parte di dott. A. Marano erano presenti una cinquantina di rappresentanti di istituzioni (Regioni prevalentemente) e di associazioni.
La prima relazione del prof. Butera è stata interessante. Ha parlato della relazione tra PERSONA – RUOLO – PROFESSIONE. La persona, le sue caratteristiche e competenze, cosa fa davvero? Cioè qual è il suo ruolo? Allora si assiste a uno sviluppo della persona nel ruolo e contestualmente uno sviluppo del ruolo “sulla” persona .

Ci si deve chiedere: c’è identità tra ruolo e professione? La professione è ciò che da identità alla persona, ciò che gli garantisce una formazione e una remunerazione, ma nella definizione della professione può non esserci sovrapponibilità col ruolo. I servizi sociali, ha detto, sono un luogo di innovazione e sperimentazione; nuove figure si delineano ed entrano in concorrenza con le vecchie, inoltre ci sono grandi differenze tra le regioni che hanno denominazioni e profili differenti.


La dott.ssa Poddighe ha rilevato l’esistenza di 190 professioni ( e non si è dichiarata certa di averle rilevate tutte, per la difficoltà a reperire le relative fonti). Ha rilevato disomogeneità nelle denominazioni e una grande variabilità anche di consistenza numerica: si va da 14 professioni della Liguria a 41 della Basilicata! Ha sottolineato l’opportunità di un riconoscimento dei percorsi formativi per assicurare mobilità nei territori e leggibilità a livello di paesi europei. Citato la Regione Emilia Romagna che con legge 12/2003 ha approvato un repertorio delle qualifiche regionali. C’è un intervento sui profili al fine della determinazione dei requisiti minimi per autorizzazione al funzionamento e accreditamento, ma poche indicazioni sulle competenze o sulle funzioni distintive. Ha citato il caso favorevole della figura di OSS a seguito di un accordo Stato/Regioni del 2001.


Nell’intervento del prof. Pianta sono stati riferiti i numeri. In particolare la stima è di 600.000 occupati nel settore tra cui più della metà appartenenti alle cooperative. Ci sarebbero poi 700.000 badanti. Si tratta di un bacino di espansione dell’occupazione, ma manca un ruolo trainante della Pubblica Amministrazione che vuole probabilmente evitare un aumento della spesa pubblica.


Il dott. Zamaro ha coordinato la discussione che ha visto interventi (a volte di carattere rivendicativo di alcune categorie professionali), di alcuni rappresentanti delle regioni, di rappresentanti dell’ISTAT e dell’ISFOL.


In rappresentanza dell'ANOSS è stato sottolineato come la tendenza a non voler accrescere la spesa pubblica ha portato e può portare ancor più a problemi e difficoltà. Ad esempio, se ci sono più operatori di cooperativa che dipendenti pubblici è perché costano meno, ma non è corretta la sperequazione e non è certa l’equivalenza formativa. Poi, riprendendo un’affermazione di Zamaro che aveva detto che anche in altri settori ci sono contenuti diversi rispetto a profili uguali e viceversa, ho fatto presente che in realtà nel nostro settore è imprescindibile una declaratoria dei profili a livello nazionale, non perché faccia paura l’eterogeneità, ma perché è una garanzia iniziale importante: se si vogliono stabilire dei livelli minimi dei servizi bisogna affermare anche degli standard minimi delle professioni.

è stato poi trattato il tema del burnout riscontrabile nelle professioni sociali perché spesso l’operatore finisce in “un abbraccio” con l’utente. Ciò ha creato dibattito e alcuni hanno sostenuto che l’approccio deve essere professionale riducendo la componente emotiva. Ciò non è sempre possibile e la posizione di duplice valenza di uomo e professionista non è opportuno scinderla in quanto potrebbe rappresentar forse l’elemento di rischio da un lato e la carta vincente dall’altro.